TERZA PARTE
Un tonfo secco mi sveglia di
colpo. Un cocco, con tutta la sua armatura di legno, si è abbattuto
pesantemente al suolo a poche decine di centimetri dalla mia branda… Potevo
riceverlo in testa se solo avessi deciso di appisolarmi un po’ più in là. Sono
stato fortunato e allo stesso tempo incosciente perché ci sono cartelli
dappertutto che spiegano, in inglese,
quanto sia pericoloso appostarsi all’ombra delle palme ma troppo vicini al
tronco. Ci allontaniamo, per sicurezza ci incamminiamo lungo la spiaggia dove
incontriamo un gruppo di donne variopinte, vestite con tessuti dai colori
sgargianti, si avvicinano a noi in gruppo, sembrano allegre ma non si fanno
fotografare volentieri, cantando ci incrociano, si dirigono verso un punto
lontano sul mare, verso l’orizzonte. Ci chiediamo dove vadano così baldanzose
queste donne vestite di tutto punto, alcune a piedi scalzi, sulle rocce taglienti
nella bassa marea. Ci dicono che vanno a pesca. Non si capisce in che modo
perché non portano quasi nulla se non piccolo secchio e un bastone. Camminano e cantano fino a
quando le loro sagome diventano piccolissime e le loro voci indistinguibili.
Dalla parte opposta si avvicina intanto un temporale…
Con un tempo incerto e
tutt’altro che rassicurante ci addentriamo nel paese a ridosso del villaggio
turistico, non ancora pronto ad accoglierci in quanto la pulizia della camera
va avanti a rilento…Botteghette un po’ precarie si affacciano disordinatamente
sulle strade di terriccio e buche,
vendono un po’ di tutto, attrezzi, utensili, cibo e spezie senza contenitori
industriali, molto viene esposto all’aria aperta e le donne (sono loro che
gestiscono generalmente questi negozietti) sono sedute fuori, su qualche
sgabello di fortuna, per terra o sotto gli alberi e realizzano braccialetti
colorati sotto lo sguardo curioso e divertito di una miriade di bambini
belllissimi che sbucano qua e là. La plastica qui sembra arrivata in ritardo e
la gente la conosce poco, forse non la capisce e la disperde per la strada come
fosse una sostanza naturale e non chimica. Per terra è un po’ ovunque e resta
in bella vista fino a quando non viene bruciata in grossi mucchi che
sprigionano fumo nero pericoloso e puzzolente. Nessuno raccoglie nulla e tutto
è lasciato lì a fare bella mostra di sé, sulla strada. Sotto gli alberi, negli
angoli, tra le macerie…Differenziare qui è un verbo sconosciuto ma si avverte
che su questo tema c’è una certa attenzione da parte del governo o di chi
comanda ma, a parte sporadici contenitori in rete metallica a forma di pesci
nelle zone urbane più frequentate dai turisti, c’è poca sostanza. In effetti,
la prima cosa che viene in mente girando per questi centri “urbani” è cosa faccia mai il governo
locale per questa popolazione, visto lo stato delle strade, la mancanza diffusa
di corrente, di acqua, di collegamenti e di servizi pubblici di ogni genere.
L’acqua viene fornita a bidoni da 50 litri oppure con autocisterne che la
distribuiscono nei centri abitati a
pagamento. I più fortunati la conservano in grossi silos in plastica sospesi su
strutture dall’aspetto precario che ne consentono la distribuzione per
l’innaffiamento o altri usi domestici ma si ha l’impressione che il meglio sia
destinato ai “volponi” stranieri che hanno trasferito qui i loro affari e che
stanno sfruttando a fondo la terra, qui largamente disponibile, approfittando
di norme edilizie poco restrittive. La quantità di resort, villaggi a cinque
stelle e strutture turistiche alberghiere di un certo pregio diffusi sul
territorio, fa pensare che siano in molti gli stranieri (tanti italiani) ad
avere avuto l’idea di trasferirsi qui per investire i propri risparmi in
attività ricettive, nelle quali la popolazione locale è coinvolta soltanto come
forza lavoro. Uno stipendio medio si aggira intorno ai 150 dollari che, al
costo della vita locale, sono sufficienti per vivere dignitosamente ma non
certo per accumulare capitali da investire in attività economiche e
imprenditoriali. La proprietà delle attività ricettive e le poche forme di
impresa restano dunque saldamente nelle mani di stranieri che arrivano qui con
risorse economiche ingenti (in rapporto al contesto) che non trovano
evidentemente concorrenza nell’imprenditoria locale ma piuttosto il sostegno e
la collaborazione dele amministrazioni e del governo. La distanza tra chi
investe e chi lavora è chiara nella evidenza architettonica: le case degli
“stranieri” sono case a tutti gli effetti, solide, squadrate, in cemento, con
il tetto in legno e lamiera, gli impianti regolari, i pannelli solari ecc.
Quelle dei locali sono baracche che spesso cadono a pezzi, con muri di terra,
lamiere arrugginite, pezzi di legno di recupero e foglie di palma e bambù
assemblate alla meno peggio. Nella breve passeggiata che facciamo all’esterno,
prima di tornare al villaggio ed entrare finalmente in camera, mi convinco che qui c’è troppa
distanza tra chi sfrutta la ricchezza dei luoghi (spazi infiniti, terreno in
abbondanza, disponibilità e simpatia della popolazione locale, facilità di
impresa, semplicità dei rapporti e della vita in generale) e chi in questi
luoghi ci è nato e ci vive, apparentemente ancora da schiavo…
Rientriamo al villaggio per il
pranzo in quanto ci daranno la camera solo nel primo pomeriggio. Protestare è
inutile e anzi, non mi viene neanche voglia di farlo, perché i zanzibarini sono
tutti troppo simpatici e gentili e con tutti i sorrisi e i “Jambo jambo” che ho
ricevuto mi è passata pure la stanchezza.
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