(disegno di Giacomo Ricci)
Dialogo senza filtri sull’architettura con l’arch. Giacomo Ricci
Ho dialogato a lungo
con Giacomo Ricci (architetto, professore universitario, scrittore, artista
poliedrico e soprattutto mio caro amico e collega da quasi mezzo secolo) sul
tema dell’evoluzione che l’architettura ha avuto nel corso degli ultimi decenni
e sul ruolo che gli architetti hanno avuto (e hanno) nel determinare la
situazione ambientale molto critica nella quale ci troviamo oggi. La nostra
discussione è partita da alcune foto che gli ho mostrato nelle quali è visibile
la trasformazione architettonica in atto a Mogliano Veneto. Una discussione amichevole
nella quale due architetti di un’altra epoca si sono scambiate alcune
impressioni sulla realtà della città contemporanea.
M.Z. Giacomo (gli
mostro le foto) perché, secondo te, sta
accadendo questo, perché siamo arrivati ad uno sviluppo architettonico e
urbanistico di questo tipo?
G.R. Con il tempo
( in tarda età ) ho cambiato mestiere, sono andato in pensione e mi sono
dedicato molto al disegno ma come sai ho l’umiltà di imparare le cose da quelli
che le sanno e dunque mi piace seguire tutorial in rete e il lavoro degli altri
da cui c’è sempre da imparare…Ho trovato geniale quello di una ragazza inglese di
origini libanesi Joumana Medlej che
suggerisce, prima di qualsiasi approccio tecnico/scientifico al disegno, di
fare un esercizio semplice per impararne i rudimenti: ti devi sedere al
tavolino di un bar con taccuino e penna (bada bene, penna non matita perché
così non hai ripensamenti) e riprodurre tutte le persone che hai intorno. Tu mi
dirai…ma se uno non sa disegnare cosa fa? Non importa, fa quello che dice il cuore, perché tanto il
disegno non è bello o brutto…Il disegno è. Non deve piacere al mondo, deve
servire e piacere a te. Questo modo di disegnare all’impronta, di impulso, è
quello che più ti apre e ti proietta verso le cose che ti piacciono…verso la
vita.
Scusa Giacomo, cosa c’entra questo con il
discorso che vorremmo affrontare sull’architettura?
C’entra.
Scusa se faccio un'altra citazione. Hai letto certamente Betty Edwards, Disegnare con la parte destra del cervello.
Certo. Libro
bellissimo! Ne ho fatto un uso costante a scuola per le mie lezioni di disegno!
La Edwards afferma
tutti i bambini del mondo disegnano prima di scrivere e costruiscono, nella
loro fantasia creativa, un repertorio di segni simbolici. Un cerchio è una
testa, gli occhi due puntini, un archetto rivolto verso l'alto una bocca che
sorride e così via. Poi, verso i sette-otto anni, avviene un episodio in qualche modo drammatico, sopraggiunge il
bisogno di realtà e quel vecchio repertorio di simboli grafici viene superato.
Qualcuno stupidamente critica quel modo di rappresentare e se non si è testardi
(come noi) il bambino rischia di andare in crisi e di abbandonare il disegno
per sempre. La Edwards sostiene
ancora che la nostra fantasia creativa, sotto il profilo grafico, si blocca a quella fase infantile a meno che noi non studiamo in modo approfondito
le tecniche di rappresentazione superando così la fase simbolica per quella più
matura del disegno che riproduce (o tenta di farlo) in maniera realistica il mondo. In sintesi voglio dire che se non
hai studiato in maniera approfondita il disegno rappresenterai sempre una casa
come farebbe un bambino: un
triangolo o un trapezio per il tetto e
un rettangolo per la base. Magari aggiungendo una finestra con due linee curve
appena accennate che simulano le tende, una piantina sul davanzale e al lato un
albero con un fusto rettangolare allungato e per chioma un ciuffo arruffato, in
alto il sole che sorride con i suoi raggi e in un angolo una gallinella dalla
forma vagamente ovale con quattro linee dritte come coda. Insomma, in maniera più o meno accentuata,
ognuno di noi porta dentro di sé l'immagine archetipica di una casa con un profilo
grafico elementare. Un simbolo al quale quale, è importante sottolinearlo, si
associa spesso un’idea di campagna o di ambiente rurale. Tu pensi che qualcuno possa avere, dentro di
sé, come archetipo di “casa”, l’immagine
della Ville Savoye di Le Corbusier?
Non credo
proprio… In tanti anni di insegnamento non mi è mai capitato di chiedere ad un
alunno di disegnare una casa e di vedere un risultato diverso dalla solita
casetta di Snoopy…
Ecco, appunto. Mi perdoni il maestro dell'architettura
moderna e tutti gli architetti che hanno
fatto di lui un mito ma quella villa somiglia, nel nostro inconscio grafico,
più a una scatola di scarpe che a una casa…Tutti noi abbiamo in testa
un'immagine della casa che viene dalla nostra infanzia e dai nostri primi
tentativi di disegno. Ma chiediamoci: questo simbolo grafico tradizionale si
collega a qualcosa di più profondo? A
una vera e propria dimensione antropologica? Nel nostro caso posso affermare con
certezza che sia tu che io abbiamo un “imprinting” positivo per la “città
storica”, per il paesino, per le forme e i materiali classici, per gli sky line
consolidati e pertanto ci piace moltissimo il panorama visivo urbano in cui ci
siano gli alberi, i campanili e le case ex coloniche, contadine, monofamiliari,
quelle dove abitavano tutti, dal nonno (che aveva una funzione importante) al
nipotino ultimo nato…Lo stesso “imprinting” di base che emerge nel disegno spontaneo suggerito da Joumana
Medlej nel quale tracci due tre
linee essenziali, nella maniera più immediata possibile, per definire la figura
che si muove davanti a te.
L’architettura tradizionale ci piace perché in essa c’è l’armonia, c’è consonanza tra l’idea di famiglia e quello che
questa significa rispetto al sociale, rispetto al mondo, alla costruzione, alla
forma e alla bellezza, c’è una compenetrazione di queste sfere culturali
apparentemente diverse che invece stanno tutte insieme in simbiosi. A noi piace
l’idea della casa in mattoni, dello stare in campagna, tutti insieme nella
stessa abitazione per trarre sostentamento dai prodotti della terra e dal
lavoro comune, retaggio di un’epoca in cui i nonni morivano in casa tra gli affetti familiari e non soli nelle
RSA… svolgevano la loro funzione essenziale fino all’ultimo istante di vita.
Capisci la bellezza di tutto questo? Quella architettura con le sue forme, i
suoi spazi funzionali e quella forma urbana, rispecchiavano questo equilibrio,
l’amore per gli alberi e per l’ambiente era anche e soprattutto frutto di necessità
perché da quella organizzazione del terreno, delle alberature, dei campi, del
territorio, si ricavava il sostentamento e quindi la vita.
Che cosa è successo
dunque che ha interrotto quell’armonia che forse fino al 1800 ancora regolava
il rapporto tra architettura, ambiente, società e cultura?
Un pasticcio infinito. E’ successo che si è spersonalizzato
tutto. C’è stata una frattura e l’architettura moderna è nata proprio da questa
frattura, guarda ad esempio le case popolari ( bellissime quelle degli anni 50
razionali, funzionali rispettose dell’ambiente e dell’uomo e guarda quelle
attuali, orribili e invivibili ) la famiglia si è frantumata, così anche il
lavoro e i vecchi, la cui saggezza ha dato tanto alla famiglia e alla società
del passato recente, oggi devono andare a morire nelle RSA, c’è un degrado
fortissimo sia culturale che concettuale e dunque ecco che la forma edilizia
attuale, l’architettura nel suo complesso, corrisponde a questo stato, come uno
specchio che riflette un’immagine che però a noi non piace.
Dunque tutto quello
che abbiamo studiato all’università e che tanto ci entusiasmava negli anni ’80
facendoci immaginare grandi carriere da architetti capaci di cambiare il mondo
con una matita e tante buone idee, che fine ha fatto?
Checché se ne pensi, ora mi sento di dichiarare quello che
sento: le forme “moderne” dell'architettura sono gratuite, capricci formali di “archistar” in vena di visibilità e
successo che poco hanno a che vedere con l'ambiente in quanto non sono il
risultato di processi di crescita umana e produttiva armoniosi, coerenti con
l'ambiente e il paesaggio naturale. Le forme “alla Le Corbusier” sono il prodotto di processi creativi, quando
non solo imitativi, del tutto estranei alla forma antropologicamente costruita
su secoli di equilibrio tra l'uomo e il suo ambito naturale e sociale. Seppure oggi le case, gli edifici, sembrano essere fatti
bene, con tecniche e materiali d’avanguardia (anche se non sempre efficaci per
la verità, vedi incendio di Milano) e rispondenti alle richieste di
funzionalità dei cittadini c’è, di fondo, una mancanza assoluta di corrispondenza tra nucleo familiare, società
e forma della città.
(nella foto Via Casoni
a Mogliano Veneto)
Dunque una
architettura che da pratica “concettuale” e creativa rivolta alla costruzione
di spazi belli, funzionali in cui l’uomo possa ritrovarsi naturalmente in
armonia con se stesso, con gli altri e con l’ambiente è diventata una pratica
industriale (povera di contenuti e di idee) spesso in contrasto con il contesto
sociale e ambientale in cui si inserisce?
Giacomo Ricci
architetto
progettista di spazi reali, spazi virtuali, musei virtuali, giardini e parchi,
è stato professore in Tecnologia dell'Architettura e ha
insegnato Progettazione Tecnologica
Assistita dal calcolatore presso la Facoltà di Architettura di Napoli, quella
di Pescara e il Corso di Laurea in
Edilizia di Cava de´ Tirreni.
Si è
occupato costantemente negli anni di disegno di Architettura. Ha mostrato i
suoi lavori in numerose mostre.
Ora si
occupa di fumetto e rappresentazione 3D con il programma open source Blender.
Tra le sue
opere più importanti si ricordano:
La
cattedrale del futuro, Officina
(1982); Hermann Finsterlin, Dedalo (1982); Casa, dolce casa,
Clean, 1988; Il filo di Arianna, Electa (1994); Materiali e progetto
di architettura, Cuen, 1996, La logica di Dedalo, Liguori(2001),
Itinerari narrativi tra realtà e simulazione, Liguori (2006).
Ha scritto
il romanzo Il sogno di Jeronimus Bauknecht. Viaggio in una città immaginaria
Giannini (2009),
Ha scritto il Graphic Novel, Delitto a regola
d'arte, Alos (2016)
e i noir Pietre
di Fuoco e Lazzari (2012) che hanno come protagonisti il prof De Luca e il fantasma di Renato Cartesio.
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