E' stata la mano di Dio

 


Il film di Sorrentino, per me, è bellissimo.

Ho vissuto la mia giovinezza negli stessi luoghi del film, conosco bene quelle atmosfere, quei momenti e riconosco esattamente lo spirito con cui Sorrentino ha voluto raccontarli. La sequenza iniziale del mare e della visione complessiva della strada panoramica più bella di Napoli (via Caracciolo) con l’automobile che porta San Gennaro è molto evocativa e può far sognare chiunque ma un napoletano la sente in un altro modo, in fondo all’anima, come una parte impalpabile di se stesso. Tutti i napoletani, siano essi della parte “alta” benestanti che della parte “bassa” o delle periferie, sentono quella particolare empatia che li lega alla loro città come un’onda, un soffio di vento che li trasporta sul pelo dell’acqua, dal Castel dell’Ovo fino a Capri. Questa è la grandezza di Napoli, far sentire i suoi abitanti tutti uguali e tutti mossi  dagli stessi sentimenti verso un unico ideale di bellezza  “antica”, la stessa che Sorrentino racconta utilizzando la metafora di Maradona come fosse una divinità (e nel cuore dei napoletani lo è e lo sarà per sempre) accostandola alle antiche bellezze archeologiche nelle quali egli stesso trova la sua ispirazione, il suo invito a partire per seguire i suoi sogni. Napoli come una madre a cui Sorrentino ritorna per osservarla a lungo e intensamente, come non ha potuto fare con la sua di mamma, tragicamente scomparsa e amata intensamente e per sempre, come dimostrano tutte le immagini di quotidiana normalità in cui la ricorda e in particolare nel dialogo tenero seduti al tavolo della cucina di casa. Nel film molti oggetti, azioni, gesti consueti a noi uomini e donne di quella terra e di quel periodo, chi può dimenticare la Napoli in festa dello scudetto e chi può (di noi “eletti”) comprendere meglio cosa sia per Sorrentino il ricordo di una corsa con papà e mamma, sulla vespa e senza casco, per la strada più bella del mondo, sullo sfondo di una Napoli incantata? E la gita notturna in motoscafo con l’amico contrabbandiere, l’attrazione per la zia Patrizia, il portiere del palazzo con il cuore grande, i bagni e i tuffi dal gozzo, il pranzo di famiglia sotto il pergolato e un parentado un po’ sui generis con cui si ride di gusto di qualsiasi cosa. Una meraviglia questo “Amarcord” di Sorrentino che forse capiranno fino in fondo solo quelli come me, che hanno percorso le stesse strade, gli stessi vicoli, lo stesso mare, gli stessi panorami che ha raccontato così bene Sorrentino per il semplice fatto che li ha dentro come tracce indelebili del suo passato e del suo presente. La sequenza finale è un capolavoro assoluto, sempre dal mio punto di vista particolare beninteso, quando Fabietto (Sorrentino) indossa le cuffiette mentre sul suo viso scorre in trasparenza il paesaggio visto dal treno sulle note di “Napul’è” del grande Pino Daniele. Non poteva dare un messaggio più commovente e più condivisibile di questo a tutta la generazione di napoletani “apolidi” (come me e come tanti) che con lo stesso bagaglio di immagini negli occhi e di musica nel cuore hanno lasciato la città per cercare di realizzare i propri sogni altrove, spesso riuscendoci.