MI HA SALVATO JAMBO JAMBO


PRIMA PARTE



Andare a Zanzibar. Fino a qualche tempo fa mi sembrava impresa eroica e quasi impossibile, oggi, col senno di poi, posso dire che è stata una esperienza molto interessante, estremamente divertente, piuttosto faticosa alla nostra età (io e mia moglie siamo coetanei per quanto Vittorio Sgarbi, qualche giorno fa, le abbia dato 15 anni meno di me) e, in un certo senso, spirituale. C’è una distanza fisica pari a quella culturale, enorme, tra l’Italia e questo paese africano. Zanzibar è Tanzania, terra di Masai. 



Un posto incredibile. Si muove tutto lentamente tra orizzonti infinitamente lontani e spiagge bianche come neve battuta, palme altissime che ondeggiano al vento e volti sorridenti, perennemente curiosi, amichevoli, a cui la cattiveria sembra sconosciuta. Ragazzi sorridenti sfrecciano felici su improbabili motorette, in tre e anche in quattro e, ad ogni incontro, anche casuale, ti salutano con un “Jambo Jambo” oppure “Akuna matata” e sembrano sempre attendersi uno scambio, un cenno di saluto, una prova d’amicizia. Sbucano con queste loro teste ovali  meravigliose da orribili costruzioni in muratura, spesso pericolanti, tumefatte, semi crollate o soltanto iniziate, rattoppate con pezzi di lamiera, legno di recupero o foglie di palma, essenziali ma funzionali a svolgervi la loro esistenza semplice e naturale. Dappertutto, ai lati della strada principale, vedi bottegucce che vendono qualcosa, che stanno in piedi per miracolo, i cui proprietari si espongono al passaggio così come le semplici merci riposte su banchetti in legno traballanti sui quali spiccano alcuni frutti e poche verdure dai colori vivaci  che, incredibilmente (per noi) troveranno dei compratori prima di sera. Uno di questi commercianti, mi dicono, riesce anche a dormire dentro una minuscola capanna-negozietto di pochi metri quadrati, senza luce e senza niente che possa farlo sembrare un luogo di lavoro e anche una casa. A qualche decina di metri di distanza le costruzioni in “stile africano”  e la vegetazione colorata e rigogliosa del villaggio vacanze dove saremo alloggiati, emergono tra le macerie dell’abitato circostante, dove bambini bellissimi e vivaci, vestiti di stracci, giocano tra le pozzanghere  e i rifiuti sparsi un po’ ovunque. Arriviamo in mattinata, dopo un volo notturno interminabile (almeno per me che sopporto poco l’idea di essere sospeso a 11.000 metri nel vuoto, al buio e al freddo della notte) e una notte insonne, con l’immagine fissa di una doccia e un letto ma…la stanza non è pronta e non lo sarà fino a dopo pranzo perché le operazioni di pulizia e sistemazione richiedono tempi lunghi e, come potremo apprezzare anche nei giorni a venire, tutto a Zanzibar si svolge lentamente, con calma, “pole pole”*

*letteralmente “piano piano” in lingua Swahili, è un invito a rallentare, a fare tutto con calma, con pazienza.









Le case dei villaggi sono costruite in vari materiali, terra, impasti di cemento e pietre, lamiera, foglie di palma essiccate, un po' di tutto, diciamo che non si fanno problemi e non ne hanno nemmeno dal punto di vista climatico, dunque molte abitazioni sono senza infissi ma la tecnica costruttiva che vedete nelle foto qui sopra è davvero interessante e di (apparente) facile esecuzione, i tetti di foglie di palma vengono periodicamente rinnovati, quelli di lamiera resistono al tempo e alla ruggine e gli abitanti non ne temono la pericolosità, come è facile intuire.